Il sintomo nella prospettiva dinamica e relazionale.
Abbiamo visto come la psichiatria abbia apportato degli innegabili contributi, in termini di assegnazione, anche al malato mentale, di una dignità umana e del cambiamento quindi dell’ottica con la quale considerare lo stesso. Nonostante tale passo si possa considerare uno tra i più pregevoli progressi nel campo della cura psichica, restava ancora aperta la questione della allora relativa inefficienza dell’ottica psichiatrica nei confronti di alcune forme di disturbi psichici, in particolare nei confronti della schizofrenia.
Ciò appare però comprensibile se consideriamo che, come ogni altra disciplina, anche la psichiatria si basava sull’immagine scientifica del mondo in vigore nell’epoca in questione. Sembra tuttavia evidente che essa non riesca mai a porsi, anche ai nostri giorni, all’avanguardia del progresso, ma che nutra invece una tendenza innata a rimanere vincolata a paradigmi già superati.
Uno fra essi è costituito dal concetto di predisposizione secondo il quale l’uomo sarebbe dotato dalla natura di particolari predisposizioni che, gradualmente col corso degli anni, si espliciterebbero e si svilupperebbero (21). Un tale presupposto lascia trapelare visibilmente l’esistenza di un pregiudizio di tipo rigido difficilmente utilizzabile per la cura che, volendo usare un termine freudiano, potremmo considerare parlata. Forse in tempi più recenti, avvalendosi dello sviluppo e dall’apporto di terapie di tipo puramente farmacologiche, anche tale disciplina potrà guadagnarsi un giusto spazio. Dobbiamo comunque notare che, in un tale modo di procedere, non si interviene sulla presunta causa della patologia, ma se ne allevia solo la sofferenza, intervenendo solo su un’effetto di quest’ultima. Non dobbiamo dimenticare che le attuali miracolose terapie di tipo farmacologico, non ristabilizzano il metabolismo corporeo, ma ne modificano il chimichismo. Cosicchè non dovremmo meravigliarci se il trattamento farmacologico o elettroconvulsivo di alcune psicopatologie implichi delle controindicazioni a livello cognitivo-funzionale (274).
A quel tempo però la psichiatria non poteva avvalersi di tali composizioni chimiche miracolose. In molti casi quindi anch’essa si vedeva impotente nel trattamento di misteriosi mali anche minori. Dobbiamo alle successive teorizzazioni psicodinamiche un certo progresso nella comprensione di psicopatologie che hanno tuttavia destato notevole sconcerto.
Anche le successive tecniche di cura psicodinamiche però coltivarono un’ottica tradizionale del concetto di salute mentale. Concentrando la propria attenzione in prevalenza sull’esplorazione dell’intrapsichico, e rivolgendosi in tal modo principalmente ad una dimensione individuale.
Tuttavia lo studio dello psichico cominciò ad avvalersi di nuove concezioni. Il concetto di energia aprì delle nuove prospettive. Dalla integrazione della materia con l’energia, delle loro condizioni innate con le loro trasformazioni dinamiche sorsero dei concetti completamente nuovi e sconosciuti alla precedente epistemologia fondata sulla materia statica. Tali concettualizzazioni consentirono degli utili parallelismi coi medesimi processi dinamici che si supponeva esistessero nell’individuo a livello psichico. Naturalmente, tale modo di vedere, aprì nuove prospettive per lo psichiatra.
La concezione del funzionamento psichico dell’individuo si complicava quindi ulteriormente. Tuttavia, pur nella sua complessità, tale concezione non teneva conto di fattori d’influenza che in seguito vennero valutati come determinanti per lo sviluppo ed il perdurare della psicopatologia. Non veniva infatti considerata l’influenza del contesto sociale in cui l’individuo si trovava coinvolto. In verità Bowen (99) in un suo articolo ha fatto rilevare come, i primi tentativi di tenere conto del contesto ambientale nel quale l’individuo si sviluppava e cresceva e di coinvolgere nella cura il genitore del paziente, risalissero proprio ai tempi freudiani con il trattamento del “Piccolo Hans” (100).
Fra l’individuo ed il proprio contesto sociale veniva comunque tracciato un sottile confine artificiale (4). Ancor’oggi, un terapista orientato verso l’approccio individuale, è incline a considerare l’individuo come depositario della patologia e a raccogliere dati che si possono ottenere solo dal singolo paziente o che comunque lo riguardano personalmente. La psicodinamica si è quindi sforzata rispetto alla psichiatria classica di non orientarsi alla risoluzione del problema sintomatico e di inquadrare l’individuo considerandolo latore di una complessità superiore. Tutto ciò non è però valso ai fini pratici e tutt’ora il trattamento puramente sintomatico risulta inconciliabile con il modello psicodinamico, quindi viene considerato antiterapeutico. Anche qui ci troviamo di fronte ad una contraddizione da risolvere. Bisogna premettere che la formazione da terapisti difficilmente trova una esatta coincidenza con una formazione da filosofi della scienza, ne consegue che spesso il terapeuta resta per così dire “cieco” di fronte al fatto che la limitazione suddetta è insita nella natura teorica e non in quella umana. Lo dimostra il fatto che nell’ipnoterapia, nella terapia del comportamento, ed in alcune forme di terapia familiare o breve viene praticata con successo quello che, nel sistema a orientamento dinamico, è considerato invece un trattamento sintomatico, quindi rifiutato (21).
Un passo veramente importante, nel modo di concepire il sintomo ed i fattori ad esso correlati, si è compiuto solo in un’epoca abbastanza recente. I presupposti ideologici risiedono però in epoche remote. Watzlawick (21) narra di come già nel XVIII secolo, in un campo completamente diverso, venissero affrontate le prime problematiche relative ai concetti di retroazione e di feedback.
James Watt si trovò a risolvere un problema di retroalimentazione che riguardava la messa a punto della macchina a vapore. Il pensiero rigidamente lineare/casuale dell’epoca, indusse molti studiosi del settore a muovergli delle perplessità. L’energia compressiva trasmessa sullo stantuffo era costante e non consentiva allo stesso di compiere un ciclo completo. Il problema si sarebbe potuto risolvere con la presenza in loco di un operatore che, al momento opportuno, avesse chiuso il flusso di vapore. Tale soluzione era però evidentemente poco pratica. L’introduzione di un secondo elemento nel sistema, cioè di un opportuno cassetto di distribuzione che comandava l’apertura e la chiusura della valvola di flusso, risolse brillantemente il problema. La combinazione dei due elementi, l’uno fornente energia (stantuffo) e l’altro di controllo della stessa (comando di apertura del flusso), costituiva così un sistema a complementarità ristretta.
Si era in altre parole pervenuti, fin da allora, a concepire il primo, anche se rudimentale, sistema cibernetico di regolazione. Il sistema era intelligente e regolato da una filosofia del tutto nuova di tipo casualistica circolare; il comportamento degli elementi in esso contenuti era guidato dalla reciproca informazione. Per la prima volta si concepiva quindi un meccanismo il cui effetto agiva sulla propria causa. Possiamo affermare che nel semplice loop a due elementi appena descritto, vi è contenuta l’essenza fondante tutta l’attuale ottica relazionale.
Nella prospettiva relazionale infatti l’individuo non viene visto come una unità a sé stante, ma viene inquadrato come un elemento facente parte e che a sua volta subisce ed esercita influenza nei confronti i innumerevoli altre unità, costituite dall’ambiente sociale circostante (271). Dobbiamo però prendere nota del fatto che, nel settore sociale, non ci troviamo nella semplice situazione di una interazione a due elementi sopra descritta; siamo spesso invece in presenza di regolazioni cibernetiche di tipo multiplo.
Per semplicità si suppone però che la condizione sia tra le più semplici. Alla luce di tali considerazioni si assume quindi che tra il sintomo (effetto) del paziente designato e la disfunzione relazionale (causa) si crei un circolo vizioso autoperpetuantesi; una sorta di risonanza da interrompere se consideriamo il nucleo familiare proiettato sul proprio ciclo vitale. Ma in verità è noto il processo sotteso alla manifestazione sintomatica che spesso si presenta come il risultato, non di una retroazione, ma di una serie di retroazioni nelle quali possono essere coinvolti i nuclei familiari degli stessi coniugi. Il sintomo però, reclamante la ri-calibrazione del sistema familiare, non è di natura semplice ma può essere, nel momento dell’incontro terapeutico, il risultato di una progressiva autoprogrammazione dell’elemento reagente durata anni (68).
Il principio di base è lo stesso ma ci troviamo, quando consideriamo le famiglie, in presenza di retroazioni multiple e di natura complessa, che si qualificano sia in funzione dell’epoca in cui le stesse si sono attuate (ad esempio nei primi anni di vita del p.d.), sia in funzione della durata temporale delle stesse. Naturalmente nel momento dell’incontro terapeutico tali variabili, il più delle volte, non sono osservabili.
L’acquisizione e lo sviluppo da parte dei figli di una sana identità presuppone in genere quindi un ambiente formativo familiare stabile e dai confini e ruoli ben chiari e definiti (5). La stessa trasparenza nella relazione dovrebbe poi manifestarsi a livello comunicazionale. Ci accorgiamo invece che, proprio su questo fronte la famiglia si dimostra spesso difettosa (103,104). Essa si avvale di un tipo di comunicazione incongruente dove la disconferma dell’altro, più che essere un’eccezione diventa una regola (86). In verità tale incongruenza prende l’avvio già da una relazione coniugale insoddisfacente descritta quasi sempre come estremamente dissonante in termini di premesse di base e di aspettative (101,102).
In sintesi, con l’ottica sistemico relazionale, si è andato considerando il gruppo nucleare sempre più similarmente ad un modello cibernetico omeostatico (68). Tendente quindi al mantenimento del proprio assetto relazionale, anche se disfunzionale, tuttavia tale concezione ha subito un ulteriore adeguamento con l’introduzione dei concetti di morfostasi e morfogenesi, e ciò in un scenario dialettico contraddistinto dalla introduzione della seconda cibernetica. Il gruppo familiare viene in tal modo concepito non solo come sistema tendente alla conservazione della propria struttura e organizzazione, ma anche orientato alla propria evoluzione, sintesi di un cambiamento produttivo (268,269,270). L’ultima evoluzione della concezione sistemica ha riguardato quindi il conglobamento nel sistema osservato, anche dell’osservatore, ovvero dello stesso sistema terapeutico. La cibernetica di secondo ordine (276) ha così contraddistinto una prospettiva costruttivista ed auto-referente delle varie realtà familiari. Tale problematica assume una importanza fondamentale in tema di valutazione. Una valutazione ovvero l’espressione di un giudizio sulla efficacia di un intervento terapeutico, o sulla giustezza del funzionamento di una data famiglia incorre quindi in una inevitabile “coloritura” fornita da chi si esprime a tale riguardo. Da qui, come avremo modo di vedere in seguito, la ricerca di un metodo che assicuri la massima di obiettivazione, sia della relazione tra terapeuta e famiglia (quindi in definitiva del processo di cura), sia del processo mediante il quale si valuta la normalità di funzionamento del nucleo e le direzioni per un eventuale cambiamento.
Sull’argomento ci diffonderemo comunque in seguito. Per ora ci basti porre l’enfasi sull’aspetto del tutto innovativo che la prospettiva relazionale ha fornito per la comprensione della psicopatologia.