Concezioni remote del disturbo mentale.

Concezioni remote del disturbo mentale.

Nel corso dei secoli sono state attribuiti alle alterazioni sintomatologiche della sfera psichica i significati più svariati. E solo grazie alla psichiatria che si è potuto cominciare ad inquadrare il disturbo mentale in un’ottica che uscisse dalle convinzioni e dai pregiudizi d’ordine demologici caratteristici dell’epoca prescientifica. Si è quindi potuto giungere, grazie anche alla progressiva evoluzione delle scienze mediche, ad una considerazione del tutto nuova del significato del sintomo.

Grazie alla medicina si cominciò a far rientrare il disturbo mentale nell’ambito di disfunzioni di tipo medico. Infatti l’analisi sistematica e scientifica dei disturbi psichici si fa risalire agli inizi del settecento (95), quando si cominciò ad identificare e a distinguere il folle da ogni altra forma di emarginazione. Solo verso la fine di tale secolo però, si riconobbe al malato mentale una propria dignità. Fino ad allora, tali individui, erano nella pratica accomunati ai criminali.

In seguito ci fu la riforma delle strutture ospedaliere operata in Italia da Vincenzo Chiarugi (con il regolamento dell’ospedale Bonifacio di Firenze, 1788) e in Francia da Philippe Pinel (con la liberazione dei malati dalla catene e con l’applicazione del trattamento morale, 1793-95). Prima di loro, le questioni relative alla follia erano considerate perloppiù quaestione philosophiae. Il malato mentale veniva quindi ad assumere la funzione di capro espiatorio di pregiudizi politici-religiosi e di mali sociali. Risultato questo, di operazioni ideologiche atte a proteggere il cosiddetto uomo normale e la sua società dalla angoscia, dalle paure e dai pericoli dell’imprevedibile e dell’incomprensibile che sono le uniche a giustificare tale caccia al colpevole (98,266,267).

Come conseguenza di questo insediamento della ragione, come la più alta delle istanze umane, nasce quindi il desiderio di oggettivazione del mondo ed insieme di purificazione dell’immagine scientifica del mondo da dogmi, pregiudizi, credenze, miti ed altri principi non dimostrabili.

 

La concezione psichiatrica.

 

Siamo così passati dalla antica concezione demologica della malattia psichica, in maniera progressiva ma costante, alla concezione medica della stessa. Dobbiamo però notare che, pure se sono stati fatti degli innegabili progressi nel campo della psicodiagnostica, il malato resta pur sempre un etichettato. Tale assegnazione, anche se condotta da un medico, si traduce sovente in un giudizio soggettivo.

Da questo punto di vista la differenza che intercorre tra l’antica concezione demologica e quella più recente psichiatrica, consiste solo nel fatto che quest’ultima nutre pretese di scientificità. Tuttavia anche tale disciplina non è esente da errori valutativi e metodologici. Il discorso si può comunque generalizzare a tutti i settori scientifici e la storia, ne siamo spettatori, è piena di convinzioni scientifiche che vengono spesso disilluse in epoche successive.

Univocamente la psichiatria classica considera lo stato di salute o quello di malattia esclusivamente in funzione al grado di adattamento alla realtà del soggetto (21). Se vogliamo trarre delle logiche conseguenze da quest’ultima affermazione, dovremmo chiederci però in quale misura sia mai possibile definire il disturbo psichico. Appare indubbia la utopicità di una tale asserzione. Sappiamo infatti di come, a partire da Kant, la realtà in senso assoluto non sia definibile. Si riesce perloppiù a pervenire ad interpretazioni o ad immagini della stessa; e ciò non solo nel campo scientifico ma anche nella vita di tutti i giorni (273).

Inoltre, essendo la psichiatria una branca medica, eredita dal settore della medicina tutte le convinzioni e i pregiudizi. Il sintomo viene quindi considerato alla stregua dell’organo fisiologico malato, come una parte da estirpare e che prende origine esclusivamente in un contesto individuale.

E inevitabile che tale concezione conduca a vedere il sintomo da una prospettiva di deviazione comportamentale dalla norma. In tal modo si perde di vista la unicità comportamentale che caratterizza per l’appunto ogni individuo. E oggi invece parere abbastanza comune ch’esso possa essere superato, anche senza produrre nella persona in questione un radicale cambiamento caratteriale, ma semplicemente aiutandola a vivere in una dimensione che la renda libera di crescere e svilupparsi (30,83,84,85).

Ai nostri giorni la psichiatria si sta orientando, e ciò grazie anche alla indiscutibile evoluzione delle tecniche farmacologiche, sempre più verso una dimensione biologica dei disturbi psichici. Si tratta però pur sempre di una azione medica condotta a valle di ciò che si suppone abbia predisposto la psicopatologia. Si concreta in tal modo un’azione ortopedica e di riconduzione alla normalità della unità individuale. Kerr e Bowen (265), in un recente saggio, hanno notato come, l’effetto del farmaco, si traduca nella pratica, in un’azione riequilibrante a livello fisiologico che dovrebbe comunque esistere in natura in un ambiente relazionale equilibrato tra tutti i componenti coinvolti nella relazione familiare e sociale.

Tale prospettiva fu tra l’altro già evidenziata da Laing (38); vale a dire che il sintomo possa essere considerato un modo del tutto personale di ribellarsi ad un disagio che invece risiede proprio nel contesto di appartenenza. La conduzione del comportamento dell’individuo, che reca sintomi psichici socialmente disadattanti, ad un modello socialmente accettabile non si discosta quindi notevolmente dalla originaria concezione demologica della malattia mentale.

Un tale discorso trova giustificazione solo considerando un’immagine dell’uomo basata essenzialmente sul concetto di predisposizione genetica (21). Non v’è dubbio che la predisposizione genetica rivesta un ruolo rilevante sul successivo sviluppo della psicopatologia, da sola però essa non è sufficiente per lo sviluppo della stessa.